Roberto Maria Lino. Memoir of a Needle

Massimiliano Bastardo, Juliet, July 19, 2025

C’è un ago che attraversa la tela come fosse carne. Non cuce, ma sonda. Non ricompone, ma registra. Roberto Maria Lino, con la sua prima mostra personale negli Stati Uniti presso la newyorkese Palo Gallery, compie un gesto radicale: trasforma il linguaggio della pittura astratta in una riflessione profonda sul corpo, la cura, la memoria e la ferita. Memoir of a Needle non è solo un titolo evocativo, ma una vera dichiarazione di metodo. Ogni opera – sia questa facente parte della serie Sutura Spolia o Red Monochromes – è il risultato di una scrittura lenta e tattile che affonda nella biografia, senza mai cadere nell’aneddoto.

 

Nato nel 1996, cresciuto tra Napoli e Roma, Lino sviluppa una pratica che nasce da un’esperienza precoce e inusuale: sin da bambino assisteva il padre cardiochirurgo in sala operatoria. Questo imprinting ha lasciato un segno indelebile, non come trauma, ma come forma di osservazione dettagliata del corpo, della tecnica, della fragilità. Ogni suo lavoro si muove, infatti, lungo una linea sottile tra il clinico e l’intimo, tra il gesto preciso del chirurgo e quello sospeso dell’artista. Nella serie Sutura, Lino cuce insieme tessuti recuperati – camici, biancheria, maglie intime, tele tarlate – con un filo rosso che non cerca mai la saldatura perfetta. Ogni superficie è una cicatrice, un punto di tensione, un dispositivo affettivo. In un’opera realizzata per la mostra, l’artista assembla frammenti degli abiti del padre e li cuce con fili appartenuti alla madre: un gesto intimo e radicale che unisce medicina, affettività, biografia e perdita in un’unica struttura verticale, come una colonna vertebrale cucita a mano.

 

Spolia e Red Monochromes amplificano questa logica del recupero e della tensione. Il primo gruppo di lavori prende il nome dall’antico termine latino che indica il riuso dei materiali: ogni frammento è memoria stratificata, traccia vivente di un corpo o di un tempo. I monocromi rossi, invece, non sono mai solo colore. Il rosso è sangue, carne, desiderio, vergogna. Ma è anche linguaggio, ritmo, battito. Lino lo lavora con rigore, tingendo a mano, strappando, incollando, stratificando. Il risultato non è pittura tradizionale, ma un campo epidermico attraversato da forze. Lino parla di “dipingere con l’ago”. In effetti, le sue opere si pongono al crocevia tra pittura, scultura e tessile. La superficie è sempre un campo di tensione: tra l’industriale e il domestico, tra il gesto anonimo e quello intimo, tra il corpo individuale e la sua traduzione in sistema. L’opera non rappresenta il dolore, ma lo rende materia. Non parla di medicina, ma della sua estetica invisibile: quella dei resti, dei dispositivi, delle ferite che non guariscono mai del tutto.

 

Il contesto della Palo Gallery, fondata da Paul Henkel nel cuore dell’East Village, si presta perfettamente a questo tipo di gesto: uno spazio nato per accogliere pratiche giovani, ma capaci di interrogare i linguaggi e le urgenze della contemporaneità con profondità e rigore. Lino si inserisce in questo discorso non come outsider, ma come autore consapevole di una pittura che ha scelto di essere fragile e necessaria. Memoir of a Needle non è una mostra “del corpo”: è una mostra sulla soglia tra corpo e memoria, tra tessuto e trauma, tra gesto e pensiero. Lino cuce per non chiudere, compone per non risolvere. Le sue opere chiedono tempo, attenzione, tatto. Ma offrono in cambio qualcosa di raro: un’intimità disarmata che non si consuma nel simbolo, ma resta, come un segno cucito sottopelle.